Il ristorante SPIZZICO

Il ristorante SPIZZICO

IL RISTORANTE SPIZZICO

Correva l’anno 1930 quando il famoso «Ristorante Spizzico» era all’apice della sua rinomanza, e le guide turistiche lo indi­cavano come «tipico».

La sua fama aveva quindi varcato i confini dell’Abruzzo, ed anche dell’Italia, per cui i forestieri che arrivavano a Pescara an­che da terre lontane, consideravano una tappa d’obbligo il pran­zo in questo locale.

In realtà di tipico questo ristorante aveva, oltre alla cucina veramente squisita a base di pesce, che veniva considerata la migliore di tutta la costa adriatica, le pareti tappezzate di qua­dretti con fotografie, schizzi, caricature, disegni, poesie, tutti con dedica e firma autografa dei più altisonanti nomi della politica, dello sport, del teatro, del cinema, della letteratura, e la ventu­ra di essere ubicato proprio accanto alla casa natale del poeta Gabriele D’Annunzio.

Oltre a tali requisiti, si sarebbe inutilmente cercato un qual­siasi indizio che denotasse uno stile o una caratteristica: i tratti di parete ancor liberi dall’invasione dei quadretti mostravano una rozza pittura a calce, i pavimenti erano, come tutte le vec­chie case del tempo, in mattoni grezzi; nella sala da pranzo si apriva da un lato un balconcino che dava sul corso Manthoné, ed era, date le sue dimensioni, quasi impraticabile, se pur pro­tetto da una leggera ringhiera di ferro; mentre, dal lato opposto si poteva indovinare una porticina quasi mimetizzata fra i qua­dretti, al cui centro, in piccoli, quasi vergognosi caratteri, ne era precisata la destinazione: 00

Dalla ringhiera del balconcino pendeva, direttamente sopra i passanti, durante le ore della mattina e fino al momento del­l’apertura del ristorante, assicurato ad un gancio di ferro, un gros‑

so storione o un dentice del peso di una diecina di chili, il che finiva col dare un risalto alquanto pacchiano alla grande inse­gna in lamiera verniciata situata sopra al portone, sulla quale campeggiava la scritta «Trattoria Spizzico».

Per accedere dalla strada al ristorante, che trovavasi al pri­mo, e contemporaneamente ultimo piano, perchè direttamente coperto dal tetto, occorreva imboccare, appena varcato il por­tone, una stretta scala fatta di mattoni grezzi, lateralmente pro­tetta da un passamano di ferro. AI culmine era la porta d’in­gresso, e sopra di essa, in bel carattere stampatello, si pavoneg­giava la seguente strofetta:

Trattoria Spizzico-(Enrico Lauriti)

NON FARCI CASO SE LA SCALA E’ STRETTA,

SE IL CAMERIERE SERVE SENZA GIACCA

SE IL CUCCHIAIO, IL COLTELLO E LA FORCHETTA

NON SON D’ARGENTO, MA DI VILE ALPACCA.

ALLA ZUPPA DI PESCE FA BUON VISO,
CHE’ SPIZZICO LO CUOCE IN PARADISO.

Ormai Spizzico andava sempre più consolidando il suo no­me, man mano che aumentavano le testimonianze che spicca­vano di prepotenza sulle pareti. Ne era diventato un vero colle­zionista, ed era sua costante preoccupazione provvedersi di nuovi trofei ogni volta che nel suo locale entrava un personaggio famoso.

Perciò, quel giorno in cui venne a pranzare nientemeno che il poeta romano Trilussa, accompagnato da alcuni amici, non potè fare a meno di cogliere la buona occasione.

Dopo aver servito agli ospiti le sue specialità più raffinate, si avvicinò al Poeta, e:

— Commendatore, — gli disse — spero vivamente che Lei sia tanto generoso da dedicarmi, in ricordo di questa gradita vi­sita, una delle Sue tanto simpatiche strofette.

Oh, ma certo! — rispose il Poeta — Anzi, ci stavo già pen­sando, e sarà per me un vero piacere. Mi dia l’occorrente per scrivere.

Purtroppo Trilussa, prima di prendere posto a tavola, ave­va attraversato quella porticina 00 per darsi la rituale lavatina alle mani, ed era rimasto spiacevolmente impressionato da un vaso da notte pieno di orina, malauguratamente dimenticato in un angolo. Nulla aveva detto in proposito, ma quella vista non gli aveva certo propiziato l’appetito!

Spizzico, ignaro di questo piccolo incidente, era arrivato con un grande blocco di cartoncini staccabili, del formato adatto per la confezione dei suoi quadretti, e lo consegnò all’ospite con un accattivante sorriso.

Alla fine del pranzo Trilussa gli restituì il blocco, avverten­dolo che nella prima pagina avrebbe trovato la strofetta a lui dedicata, e lo pregò di leggerla soltanto dopo che egli se ne fos­se andato.

Spizzico non nascose la sua felicità, ed all’uscita dei suoi ospiti si profuse in interminabili inchini.

Alzò finalmente la copertina del blocco, ed apparve, scritta nel caratteristico corsivo trilussiano, la seguente strofetta, fir­mata dall’autore:

Spizzico caro, non averla a  male

se non ho ben gustato er tuo brodetto,

a causa di quer fetido pitale

in bella mostra dentro ar gabbinetto

e che ha seccato molto, è naturale,

alla triglia, al merluzzo e al gamberetto.

15.

« Spizzico », l’osteria più tipica della « vecchia » Pescara a cavallo tra i due secoli.

Sul personaggio Spizzico, esiste una bella testimonianza di Ettore Janni, tratta da Rapsodia abruzzese (1935):

Non tutto il vecchio dev’essere cambiato. Così pensava il più grande dei pescaresi dimoranti in patria, Spizzico.

Non ci si ferma a Pescara senza andar a mangiare il pesce da Spizzico. Ma egli è morto, il pescarese antico e tipico maestro incomparabile nel preparare in vari modi ai gusti più severi il miglior pesce dell’Adriatico. La sua frittura era leggera e fragrante: il suo brodetto un’orchestra di sapori a cui si poteva accrescere la parte dei timpani con due pezzetti di « peperone cocente », il suo « bianco » la verginità dell’odor di mare in una veste can­dida di sposa: e poi il vino d’oro, che scivola blando, e le frutta che procla­mano la magnificenza dei verzieri di Pescara, di Chieti, di Miglianico… — Spizzico, perché non vi mettete una bella trattoria elegante?

Spizzico si stringeva le spalle. Chi meglio di lui poteva. Ma non volle, perché sapeva gli umori degli uomini. I « signori » amano andare all’osteria ogni tanto. Avviene un cambiamento? C’è sempre il jettatore che comincia a dire: — Non è più quello di una volta… — Uno lo dice, venti pecoroni lo credono e lo ripetono. La fortuna, anche quando è fondata sul merito, è una costruzione misteriosa, che pare di solidità pelasgica, e che può crollare talvolta con lo spostamento d’una pietruzza.

Si va su per quella scaletta dove è possibile salire in fila indiana, si passa accanto fragranti promesse della cucina e si prende posto in una delle due stanze modeste, rassegnati agl’inevitabili sonatori e cantatori e a qualche altro più pesante scocciatore: e, lietamente sopresi dalla rapi­dità del servizio, si ha appena il tempo di dare un’occhiata dalla finestra alla ricostruita casa paterna di Gabriele D’Annunzio, sorpresi, dopo tanti anni di riverente abitudine, non vedervi più le storiche impalcature.