Antonio il forzante


“Siore e siori, vado a iniziare; ecco un chiodo che non si stortisce e ci trapasso questa tavola con un solo colpo di pugno!
Siori, non c’è trucco e gli prende un accidente a chi la mano non ci mette sul fuoco!

Il Forzuto, ovvero:

Antonie lu furzande

Aldo Grossi, nel delineare questo quadretto di vita pescarese della metà Novecento, avrebbe voluto estendere alla collettività paesana quell’atmosfera fatta di semplicità e di pettegolezzi, propria dei piccoli nuclei urbani e dunque della Pescara degli anni trenta.
L’immagine che ne è venuto fuori è frutto di rara capacità rappresentativa e di magistrale evidenziazione dell’aspetto documentario. Certi di interpretare la sua volontà riportiamo il testo originale.

Antonio, il forzante cittadino, era nell’aspetto fisico l’antifigura di se stesso.
Malgrado la sua millantata forza, aveva petto magro ed ossuto, spalle cadenti, testa piccola e sfuggente ed un viso melenso su cui occhieggiava una pupilla dalla palpebra semichiusa, non si sapeva se per difetto di nascita o per atteggiamento di presa in giro nei confronti di coloro che lo sfottevano.
Il nome Antonio, in dialetto “Ntonie” sembrava attagliarsi alla perfezione al tipo che impersonava, furbo e sornione, un po’ sordo da un orecchio quando credeva o gli faceva comodo, pronto a riscattarsi alle luci di un’effimera ribalta fatta di trucchi e di sceneggiate.
Già anziano, incallito beone, mascherava la sua fragilità sotto le spoglie del forzuto, esibendosi in spettacoli di abilità e resistenza muscolare, nonché in supposte strabilianti prove di coraggio, come il masticare vetri, trafiggersi con aghi o soffiare fuoco con la bocca.
Allo scopo di accentuare la stranezza dei suoi modi, si esprimeva in un singolare linguaggio semicomprensibile, norditalianizzato, con finali tuttavia sbagliate, la cui intelligibilità era resa più difficile a causa dei pochi denti che gli restavano.
Dove e quando avesse appreso questo “Italiese” ante litteram era restato un mistero per tutti.
Si diceva che fosse stato in Africa Orientale durante la guerra del ’36, contraendovi quel modo di esprimersi neuto, senza inflessioni regionali, proprio di coloro che vivono a lungo lontani dal territorio metropolitano.
Nei suoi numeri di solito esordiva con frasi come queste:

“Siore e siori, vado a iniziare; ecco un chiodo che non si stortisce e ci trapasso questa tavola con un solo colpo di pugno!
Siori, non c’è trucco e gli prende un accidente a chi la mano non ci mette sul fuoco!
Venghino avanti, questa pietra, io la metto sul petto e ci battete sopra col martello, senza paura!
Ecco una catena: mi ci legate come un salame e io mi scioglio e rompe il lucchette”!

E via di questo tono, tra le risa generali dei presenti, le salaci battute e le pesanti allusioni.
Con l’aiuto dei compari che gli facevano da “spalla”, Antonio sciorinava sulla piazza i suoi ferri del mestiere, consistenti invariabilmente in una coperta sdrucita, una bottiglia di petrolio, tratti di catene, frammenti di vetro, un mazzuolo e degli stracci per detergere il sudore.
In un canto faceva mostra di sé una grossa pietra per la prova del macigno.
Una volta denudatosi il torace, infilava ai polsi due bracciali di cuoio punteggiati da piccole borchie lucenti, stringendosi ai fianchi un grosso cinturone di identico materiale, come quelli dei campioni della boxe.
Contrastavano però un tale apparato gladatorio i calzoni vecchi e lisi e le scarpe di tela scalcagnate.
Sui bicipiti apparivano tatuaggi di figurine femminili le quali, nella contrazione dei muscoli, assumevano movenze erotiche, suscitando l’ilarità dei giovinastri.
All’inizio di ogni spettacolo, il poveruomo dava l’impressine di essere fresco e scattante, ma si scorgeva lontano un miglio che una buona cena e molti bicchieri di vino, l’avrebbero rimesso in sesto ridandogli fiato e forza!
Si diceva infatti che Antonio, sebbene privo di denti, fosse capace di mangiare un vitello intero e che avesse sempre un appetito arretrato di parecchi giorni.
Il clou di ogni esibizione era rappresentato dalla prova del suo incatenamento che avveniva ad opera di compiacenti aiutanti, coadiuvati da qualche volontario che si faceva avanti tra il pubblico, senza dubbio anch’egli d’accordo con i compari del forzuto.
Questi, durante la prova ne accentuava i lati scenici, gonfiando a dismisura le vene del collo, strabuzzando gli occhi e bofonchiando frasi incomprensibili, quasi significando che i presenti dovessero allora soccorrerlo, ma che al tempo stesso restassero tranquilli, senza emozionarsi, poiché pensava lui, ‘Ntonie, a tirarsi fuori dall’impaccio, c’era da giurarlo!
Puntualmente, dopo smorfie e contorcimenti, si udiva il clic del gancio che rimbalzava a terra e il gioco era fatto!
Antonio raggiante, con la solita smorfia sulle labbra, mostrava a tutti sul braccio la catena disciolta, come prova inconfutabile della sua straordinaria capacità, tra gli ammiccamenti dei disincantati giovinastri, battimani, grida di “evviva ‘Ntonie”, fischi prolungati, seguiti da qualche poco riguardosa espressione sonora!
Una certa trepidazione afferrava i presenti, specie i ragazzini sempre in prima fila, nella dimostrazione del “petto di ferro”, detta anche la prova della verità.
Disteso per terra supino, con la schiena cosparsa di frammenti di vetrio, Antonio attendeva con un piglio di sfida, che i compari gli posasserto sul torace, schermato da una pezzuola, un grosso masso per essere poi frantumato con un colpo di martello.
E in realtà l’arduo esperimento riusciva invariabilmente per la semplice ragione che la pietra veniva scelta prima fra quelle più friabili e cedevoli.
Il sipario scendeva, come al solito, sulla ribalta tra fischi e lazzi, essendo ormai radicata in tutti l’incredulità per le gesta del forzuto cittadino, conosciutissimo per i suoi “bluff” e per le spacconate.
A fine spettacolo, Antonio e i suoi scagnozzi presenti, raccattavano le monete gettate sulla piazza dai presenti, pregustando già il vino della più vicina cantina, non prima di aver fatto fagotto delle cianfrusaglie sparse qua e là.
Passò del tempo, e delle strabilianti imprese di forza e di coraggio di Antonio, con tutte le chiassate che ne seguivano, si perse via via anche il ricordo.
Si riseppe solo della sua fine: aveva trascorso i suoi ultimi giorni tristissimamente, nella solitudine di un sanatorio, lui il forzuto senza macchia e senza paura, di certo per un brutto scherzo del destino.

“……Arcujeve da ‘nterre li quatrine
e si ni jeve ‘nzieme a li cumpare
a bbeve llù vinelle tande care
che steve a la candine cchiù vicine”.

da “Antonie lu furzande” di Raffaele Rotondo