Gaetano Paloscia

Gaetano Paloscia

“Una gradita sorpresa per i visitatori della storica sede del  Circolo Aternino!”

Sono visibili, all’interno, alcuni frammenti di decoro del salone in cui fu accolto, durante la settimana abruzzese del 1923, il Primo Ministro dell’epoca On. Benito Mussolini.

L’impareggiabile cronaca dell’avvenimento, acclusa al supplemento della rivista Oggi e Domani del gennaio 1994, documenta l’evento storico, evidenziando l’esecuzione dei decori da parte di Gaetano Paloscia (1871-1942), il poeta del linguaggio dei fiori e della natura.

Nei pochi motivi floreali, ancora visibili sulla parete, sono percepibili la passione e il talento che l’artista ha profuso nella realizzazione dell’opera.

Intuibile anche, per chi ha la fortuna di aver avuto punti di contatto con l’arte di Paloscia, la proiezione visiva nel salone di una dovizia di fiori e colori, quale immagine superba di una natura generatrice al di là di ogni limite.

L’artista, nell’eseguire l’affresco, si è servito della singolare tecnica delle tempere all’uovo.

I colori impiegati, gelosamente personali, risultano essere stati preparati con  impasti di tuorlo d’uovo, latte e terre pregiate d’Olanda.

Notizie su Paloscia si trovano sui cataloghi Bolaffi dell’ottocento, N. 9-10-11 e 12, relativi a” i dipinti dell’ottocento italiano”, Edizioni Allemandi ed in un Volume edito da De Luca, intitolato “Soffitti della fantasia”di cui è autore Biagio Accolti Gil.

Il catalogo, edito dalla Galleria Arte Duomo, contiene una critica presentazione di Umberto

Baldini, attuale Direttore del Centro nazionale del Restauro di Roma.

GAETANO PALOSCIA,

Il linguaggio dei fiori e della natura

-“Tu sei un giovanotto ormai – mi disse Don Ciccillo, (Francesco Paolo Michetti) –   quasi apostrofandomi – e puoi capire quello che ti dico; guarda questo quadro meraviglioso dove tuo padre ha cacciato per prodigio i frutti più belli dell’Abruzzo nostro.

Guardalo ti dico: c’è dentro il sangue nostro, mio e tuo anche; c’è la nostra anima, i nostri pensieri, la nostra poesia: tutte cose che per sopravvivere hanno bisogno di gente disposta a rinnovare il prodigio contro le forze che stanno mandando questo nostro mondo alla deriva!

Nutrisciti di queste cose!…”

Quel giorno mio padre era affaccendato a preparare la tavolozza delle tempere.

Dal giardino si poteva sentire l’odore del suo toscano invelenito, spento e serrato nell’angolo della bocca, secondo un abitudine che a periodi ricorrenti provocava le reazioni di mia madre.

Non era solo nello studio.

Accanto a lui, incurante del puzzo che una scodella di cicche assommava a quello del latte andato a male e dei tuorli d’uovo, rimasti dal giorno avanti nel fondo di un bicchiere sporco di colori, un signore puntava gli occhi molto vivaci ora alle mani di mio padre, che agitava la coltella sugli impasti, ora sulla tela preparata al cavalletto.

–  “Queste terre d’Olanda –diceva l’ospite– già non si trovano più. Dovresti usarle con maggiore parsimonia.”

Mio padre arrestava per un attimo il lavoro: “Il mese prossimo -diceva- tornerò per qualche tempo a Roma e vedrai che ne riporterò una valigiata di queste terre. C’è sempre un’omino che fedelmente me le procura…”

-“Non è una buona ragione per dissiparle.”

-”Ma non le dissipo affatto; lo sai bene che certe tonalità di papaveri hanno bisogno di terre come un ciuchino ha bisogno della poppa dell’asina…”

Ridevano tutti e due divertiti dall’immagine palizziana e riprendevano un racconto che io non capivo e che certamente si riallacciava a cose dette qualche giorno avanti in quello stesso posto, mio padre vicino al cavalletto e l’altro seduto sul divano, a un metro appena dalla grande tavolozza.

Dietro le sue spalle pendeva, imbullettata a un tavolone, una tela dipinta di fresco: la tempera stava asciugando lentamente precisando sempre più i toni dei colori che davano vita ad una cascata di frutta, dove simbolicamente s’intrecciavano le uve e le pesche, le arance e i limoni e le pere e qualche melograno.

Quell’uomo distinto, quasi alto, bene asciutto, i capelli corti e una barbetta brizzolata sul mento, era Francesco Paolo Michetti, il pittore delle pastorelle, o meglio, del Voto e della Figlia di Iorio.

Non dipingeva più da tempo.

Passava intere invernate rinchiuso nella casa annessa al convento alto degli “zoccolanti” dove D’Annunzio, suo ospite, aveva scritto Il Trionfo della Morte; ma non appena la stagione tornava a farsi mite, cominciava a far capatine, e sempre più frequenti, nel gigantesco studio che si era costruito in riva al mare, solo per fare fotografie.

Due volte alla settimana, almeno, veniva da mio padre a vederlo dipingere e a parlargli del mondo che andava inesorabilmente a rotoli: di quel mondo che era rimasto pieno di ricordi dannunziani, di divertite estrosità di Barbella o di melodie incancellabili travasate nel suo animo dalla genialità dell’amico Tosti.

Mio padre era pugliese, di Terlizzi, ma napoletano di elezione perchè a Napoli se ne era andato quando aveva solo undici anni e lì si era nutrito di pittura assaporando tutto quello che gli offriva la scuola di Morelli.

Capitato in Abruzzo per certi affreschi ordinatigli da mecenati locali, aveva finito col piantar le  tende a Francavilla al Mare, dove aveva conosciuto e sposato mia madre.

Si allontanava per lunghi periodi, sempre per ragioni di lavoro; ma neanche quando era a Francavilla si concedeva riposo perchè lo vedevo dipingere senza sosta quadri di fiori e di frutta o di papaveri e grano insieme.

Credeva nella sua pittura, così com’era convinto di trovare la felicità nella famiglia numerosa.

Una felicità che non riuscì ad acciuffare nemmeno dopo aver messo al mondo dodici figli.

Tommaso Paloscia

“Don Ciccillo spesso si rinnovava spiritualmente fra i suoi fiori!”

su gentile concessione del dr.Sandro Paloscia

GRANDI ARTISTI da riscoprire

“Una gradita sorpresa per i visitatori della storica sede del Circolo Aternino!”

Sono visibili, all’interno, alcuni frammenti di decoro del salone in cui fu accolto, durante la settimana abruzzese del 1923, il Primo Ministro dell’epoca On. Benito Mussolini.

L’impareggiabile cronaca dell’avvenimento, acclusa al supplemento della rivista Oggi e Domani del gennaio 1994, documenta l’evento storico, evidenziando l’esecuzione dei decori da parte di Gaetano Paloscia (1871-1942), il poeta del linguaggio dei fiori e della natura.

Nei pochi motivi floreali, ancora visibili sulla parete, sono percepibili la passione e il talento che l’artista ha profuso nella realizzazione dell’opera.

Intuibile anche, per chi ha la fortuna di aver avuto punti di contatto con l’arte di Paloscia, la proiezione visiva nel salone di una dovizia di fiori e colori, quale immagine superba di una natura generatrice al di là di ogni limite.

L’artista, nell’eseguire l’affresco, si è servito della singolare tecnica delle tempere all’uovo.

I colori impiegati, gelosamente personali, risultano essere stati preparati con impasti di tuorlo d’uovo, latte e terre pregiate d’Olanda.

Daniela Cataldi e Maurizio Mistichelli sono stati gli esecutori del restauro.

o

ol Aternino ≈≈≈

circolo di volontariato culturale ®

Piazza Garibaldi 51- 65127 Pescara

Notizie su Paloscia si trovano sui cataloghi Bolaffi dell’ottocento, N. 9-10-11 e 12, relativi a” i dipinti dell’ottocento italiano”, Edizioni Allemandi ed in un Volume edito da De Luca, intitolato “Soffitti della fantasia”di cui è autore Biagio Accolti Gil.

Il catalogo, edito dalla Galleria Arte Duomo, contiene una critica presentazione di Umberto

Baldini, attuale Direttore del Centro nazionale del Restauro di Roma.

GAETANO PALOSCIA,

Il linguaggio dei fiori e della natura

-“Tu sei un giovanotto ormai – mi disse Don Ciccillo, (Francesco Paolo Michetti) quasi apostrofandomi – e puoi capire quello che ti dico; guarda questo quadro meraviglioso dove tuo padre ha cacciato per prodigio i frutti più belli dell’Abruzzo nostro.

Guardalo ti dico: c’è dentro il sangue nostro, mio e tuo anche; c’è la nostra anima, i nostri pensieri, la nostra poesia: tutte cose che per sopravvivere hanno bisogno di gente disposta a rinnovare il prodigio contro le forze che stanno mandando questo nostro mondo alla deriva!

Nutrisciti di queste cose!…”

Quel giorno mio padre era affaccendato a preparare la tavolozza delle tempere.

Dal giardino si poteva sentire l’odore del suo toscano invelenito, spento e serrato nell’angolo della bocca, secondo un abitudine che a periodi ricorrenti provocava le reazioni di mia madre.

Non era solo nello studio.

Accanto a lui, incurante del puzzo che una scodella di cicche assommava a quello del latte andato a male e dei tuorli d’uovo, rimasti dal giorno avanti nel fondo di un bicchiere sporco di colori, un signore puntava gli occhi molto vivaci ora alle mani di mio padre, che agitava la coltella sugli impasti, ora sulla tela preparata al cavalletto.

“Queste terre d’Olanda –diceva l’ospite– già non si trovano più. Dovresti usarle con maggiore parsimonia.”

Mio padre arrestava per un attimo il lavoro: “Il mese prossimo -diceva- tornerò per qualche tempo a Roma e vedrai che ne riporterò una valigiata di queste terre. C’è sempre un’omino che fedelmente me le procura…”

-“Non è una buona ragione per dissiparle.”

-”Ma non le dissipo affatto; lo sai bene che certe tonalità di papaveri hanno bisogno di terre come un ciuchino ha bisogno della poppa dell’asina…”

Ridevano tutti e due divertiti dall’immagine palizziana e riprendevano un racconto che io non capivo e che certamente si riallacciava a cose dette qualche giorno avanti in quello stesso posto, mio padre vicino al cavalletto e l’altro seduto sul divano, a un metro appena dalla grande tavolozza.

Dietro le sue spalle pendeva, imbullettata a un tavolone, una tela dipinta di fresco: la tempera stava asciugando lentamente precisando sempre più i toni dei colori che davano vita ad una cascata di frutta, dove simbolicamente s’intrecciavano le uve e le pesche, le arance e i limoni e le pere e qualche melograno.

Quell’uomo distinto, quasi alto, bene asciutto, i capelli corti e una barbetta brizzolata sul mento, era Francesco Paolo Michetti, il pittore delle pastorelle, o meglio, del Voto e della Figlia di Iorio.

Non dipingeva più da tempo.

Passava intere invernate rinchiuso nella casa annessa al convento alto degli “zoccolanti” dove D’Annunzio, suo ospite, aveva scritto Il Trionfo della Morte; ma non appena la stagione tornava a farsi mite, cominciava a far capatine, e sempre più frequenti, nel gigantesco studio che si era costruito in riva al mare, solo per fare fotografie.

Due volte alla settimana, almeno, veniva da mio padre a vederlo dipingere e a parlargli del mondo che andava inesorabilmente a rotoli: di quel mondo che era rimasto pieno di ricordi dannunziani, di divertite estrosità di Barbella o di melodie incancellabili travasate nel suo animo dalla genialità dell’amico Tosti.

Mio padre era pugliese, di Terlizzi, ma napoletano di elezione perchè a Napoli se ne era andato quando aveva solo undici anni e lì si era nutrito di pittura assaporando tutto quello che gli offriva la scuola di Morelli.

Capitato in Abruzzo per certi affreschi ordinatigli da mecenati locali, aveva finito col piantar le tende a Francavilla al Mare, dove aveva conosciuto e sposato mia madre.

Si allontanava per lunghi periodi, sempre per ragioni di lavoro; ma neanche quando era a Francavilla si concedeva riposo perchè lo vedevo dipingere senza sosta quadri di fiori e di frutta o di papaveri e grano insieme.

Credeva nella sua pittura, così com’era convinto di trovare la felicità nella famiglia numerosa.

Una felicità che non riuscì ad acciuffare nemmeno dopo aver messo al mondo dodici figli.

Tommaso Paloscia

“Don Ciccillo spesso si rinnovava spiritualmente fra i suoi fiori!”

su gentile concessione del dr.Sandro Paloscia