Poesia di una città

Poesia di una città

dagli archivi di Ennio Flaiano

la nostalgia per la vecchia Pescara, ormai scomparsa..

 

Quando ripenso alla casa di D’Annunzio come era una
volta, rivedo ancora i suoi tre negozi: la farmacia Luise (il dottore Michele
aveva sposato la sorella di Gabriele D’Annunzio, Elvira), c’era poi un
tabaccaio, dove si vendevano anche cartoline della casa di D’Annunzio.

L’altro negozio me lo ricordo occupato da una
fruttivendola, donna molto simpatica e vivace, di lingua pronta e arguta,
deturpata dal vaiolo (da qui il nome che aveva di Scarrupata; mentre
Scarrupato, suo fratello, era il sempre allegro facchino dello scalo merci,
alla stazione).

La Stazione di Portanuova a fine secolo

Casa D’Annunzio a fine secolo

Sul balcone estremo di destra, guardando la facciata, ho visto talvolta seduta,

nei tardi pomeriggi, la madre del poeta: Io ero bambino, mia madre me la indicava.

Donna Luisa. Una vecchia dal volto nobile, bianca ed infelice, dicevano,

per la lontananza del figlio. Guardava la piazza a quell’ora piena di ragazzi, che

si rincorrevano e, sotto ogni tiglio, una venditrice di latte, col suo bidone e il suo misurino.

Venivano ogni sera dalle campagne vicine. Quadretto leopardiano, tanto per cominciare.

……Proprio di
fronte a casa nostra, in Corso Manthonè, c’era la Casa D’Annunzio. A1 primo
piano vi abitava Donna Luisa, la madre del poeta, con una delle figlie e la
fedele Marietta. Donna Luisa coltivava sui balconi dei minuscoli giardini di
rose e di garofani. Tutta Pescara conosceva i garofani garibaldini di Donna
Luisa. Nei pomeriggi di primavera e d’estate, dalla mia finestra, la vedevo
affacciarsi verso il crepuscolo ed innaffiare i suoi fiori da una giara di
vetro, con estrema cura. La incontravo sempre la domenica a messa in S.Cetteo,
dove accompagnavo mia madre. Vi si recava con una delle figlie, sempre vestita
di scuro con un velo sui capelli. Rassomigliava straordinariamente al figlio
Gabriele, lo stesso profilo, la stessa nobiltà dei lineamenti. Quei garofani
appesi ai balconcini, le persiane, le mura color ruggine di Casa D’Annunzio mi
mettevano addosso una frenesia che mi faceva spremere tubetti di ocre e gialli
sulfurei. I mandorli cominciavano a fiorire e l’aria di mare spandeva le prime
gemme come fiocchi di neve. Sentivo la primavera sulla punta delle dita:
pastelli, acquerelli, tempere, olio, qualsiasi mezzo era buono per cogliere una
luce e una sfumatura. La Pescara era come un arcobaleno, variava ad ogni
momento; bastava una nuvola per far cangiare tono al mandorlo. bastava un
rufolo di vento e il mare si increspava, e le vele se ne andavano a coppie
d’oro con una stella cometa in cima. Le Pagine di D’Annunzio erano dei
meravigliosi dipinti, una galleria di ritratti e luoghi pescaresi. C’erano le
case e nelle case i personaggi, gli stessi che vedevo ed ascoltavo per via; la
marina descritta da Gabriele era la mia stessa marina: vele, cordami, cubie,
pescatori scalzi, fumate di contrabbando, carico e scarico di mercanzia, donne
coi fisciù rossi che attendevano sul molo il ritorno dei capitani, ceste colme
di pesci, reti stese al sole. Nei libri di Gabriele c’erano santi miracolosi,
c’erano maghi, cerusici e il diavolo dipinto come uno sciancato con gli occhi
di brace. C’erano tutte le botteghe colle insegne colorate, il sellaio, il
vinaio, il ciabattino e la farmacia con la palla gialla; c’erano tutti gli
storpi del Venerdì Santo e la storia delle stagioni con la fioritura e la
mietitura. Sentivo gli odori della vendemmia, il mosto a settembre, il miele a
dicembre. Bastava solo mettere mano ai pennelli, bastava andare in giro da una
piazza a un orto, scegliere un luogo qualsiasi, la pineta o il fiume, la torre
o la via del Rosario. La mia vita si svolgeva in questo magico scenario di cose
e di personaggi, da terra promessa, personaggi e manifestazioni comuni a tutti
i piccoli centri, come mercato e la sua piazza, come la storia e il dialetto
che ogni paese ha suoi propri; ma la storia, il mercato, il linguaggio, il
calore, il sapore e i suoni di Pescara vivono particolati, insostituibili in mè
perchè sono stati lo sfondo della mia infanzia, della mia educazione e
formazione, e restano qual particolare unico mondo da mè vissuto, scoperto,
posseduto, mai ritrovato altrove”.
(ricordi
pescaresi di Michele Cascella)

Il padre di D’Annunzio Francesco fu Sindaco di
Pescara; intorno al 1870 strenuamente si battè per non farvi costruire la
grande stazione, che infatti fu costruita a Castellammare Adriatico, un
chilometro più a nord.

Per Pescara sembrava più giusto una piccola
stazione, in modo che il fumo delle locomotive non annerisse le case. Queste
sono forse leggende, ma le ho sentito ripetere spesso quand’ero bambino.

Il ponte di ferro

Infine D’Annunzio, non dimenticò mai il suo paese
natale e conservò a lungo curiose amicizie con persone modeste e argute, che
lui ricordava e che lo adoravano.

Mio Padre fu compagno di scuola del Poeta, presso
due sorelle maestre, allora famose per la loro severità e capacità.

Esse mischiavano bambini di età varia nelle loro
due classi.

Mio padre era di due anni più anziano di D’Annunzio
e conservava di quel gentile ragazzetto un ricordo che non seppe mai
esprimermi. (…) era ancora sorpreso dalla timidezza del suo piccolo compagno di
classe, della sua pronta e silenziosa intelligenza. “Era gentile come una
bambina” mi disse in vecchiaia.

Chi è nato dopo il 1930 non può ricordare né la
vecchia casa né la piazza bella e calma piazza paesana, con due enormi alberi
nel mezzo, ora distrutti, il terrapieno per la banda. Struggente nelle sere
d’estate in cu tutti vi si attardavano per il passeggio.

I negozi non avevano orari da rispettare,
chiudevano quando volevano; proprietari e clienti molte volte sedevano sulle
porte a prendere il fresco fino a tardi nella notte.

Ironia di
Paranzella del primo 900

Accanto alla casa dei D’Annunzio, sulla piazza, si
aprivano le porte del Circolo Aternino, per feste e il gioco serale dei soci.

Il Circolo Aternino

Veniva poi il negozio di stoffe dei D’Anchino, enorme,a ringhiera interna come
un vero negozio di città. Sul lato ovest le vecchioe case con il forno di mio
zio Vincenzo, il forno dei Flaiano, citato dal poeta in una novella della
Pescara “ Veniva dal forno dei Flaiano l’odore del pane fresco…” Il pane
era esposto all’aria. Doveva essere proprio così, gli odori di quel pane li ho
ancora nel naso.

Piazza Garibaldi e il Forno di Flaiano

Sul lato est, il grande palazzo dei Mezzanotte, con
vari negozi, tra i quali quello del pasticciere D’Amico, il migliore.Bella
costruzione ottocentesca, bene invecchiata. Ora scomparsa.

Lato sud: il palazzo”rinascimento esposizione”
fatto costruire da mio padre tra gli anni 1911 e ’14, con enormi
appartamenti che restatono a lungo incompleti e

vuoti, e dove noi ragazzi giocavamo.

Piazza Garibaldi tra il 1915 e 1918

E questa era la piazza Garibaldi, paesana, con la
parte centrale in terra battuta, i due alberi enormi, un pino e una quercia e
pioccoli tigli, e attorno le strade

fatte di ciottoli e lastroni di pietra.

Oggi, tutta la zona di Piazza Garibaldi e del Corso
Manthon è degradata con poca possibilità di riscatto.

Mi sorprendo quando la rivedo e non mi pare
possibile ch’io la ricordi pulita, gaia, in ordine, paesana, coi migliori negozi e le

case a posto.

Il Corso ora è un sordido vicolo, c’è anche la mia casa natale, non più mia,
rimasta molto peggio di allora, angosciosa, miserabile.

Prima del 1860 Pescara era stata una fortezza
borbonica con spalti, una polveriera, caserme, cannoni di bronzo che non
avevano mai sparato. I cannoni finirono sulle rive del fiume piantati come
ormeggi per le paranze e infine vennero portati via durante l’ultima guerra.
Credo che ultimamente ne abbiano scavato uno, tutto quello che resta della
vecchia difesa del Regno.

Per prima cosa, secondo lo stile italiano fu
buttata giù la Porta Nuova, una singolare costruzione esagonale del tardo
Rinascimento.

Anche la Chiesa, con un modesto ma autentico

portale cinquecentesco fu buttata giù.

La chiesa d’oggi è quella falsa e retorica architettura del ventennio fascista

che dette tanti uffici postali e case del fascio alla patria.

Legata a Napoli dalla guarnigione, ufficiali e così via,

(il dialetto di Pescara risente molto del napoletano), Pescara per molti

anni conservò usi e costumi napoletani. I pianini meccanici che giravano tutto
il giorno erano napoletani, come napoletana era la bontà dei gelati e l’amore
sfrenato per i fuochi d’artificio; e un certo umore satirico o spirito
napoletano vivissimo.

Nel 1943 la città fu rasa al suolo da un grande bombardamento.

Ma piazza Garibaldi rimase intatta e sempre più brutta,

con la casa del poeta che ormai tutti ritengono autentica.